SAINT JUST AGAIN Prog Explosion - di Riccardo Storti

23 giugno 2018

[revisione di un articolo pubblicato l'11 luglio 2011]. Sarebbe un errore vedere, o meglio, ascoltare questa Prog Explosion (Raro!, 2011) come – semplicisticamente – il nuovo album di Jenny Sorrenti. Significherebbe, in sostanza, non avere capito la reprise di una sigla storica del progressive italiano, i Saint Just di cui Jenny ne incarna l’anima e l’animo. Indicativo quell’ “Again” posto a fianco del brand, quasi a comunicare un “dove eravamo rimasti”.

Va subito sottolineato che, comunque, esclusa Jenny, non è presente nel disco nessuno degli storici componenti dell’ensemble, ma l’operazione resta intrigante, seria, stimolante e per nulla nostalgica. La voce di Jenny è il tessuto connettivo di un plot ordito su 7 composizioni di un progressive rock maturo e attuale, figlio di esperienze pregresse, accresciuto dall’importante presente transgenerazionale di validissimi musicisti (su tutti il percubatterista Marcello Vento, ormai da decenni fiancheggiatore dei lavori della Sorrenti).
La compositrice celtico-napoletana segna uno stacco timbrico con le produzioni passate prediligendo una band elettrica, quindi un suono più poderoso, sostanzialmente rock. Non solo: tra mille atmosfere chiaroscurali, alcuni episodi vicini all’improvvisazione restituiscono all’ascoltatore quel clima unico e tipico del Napule Power. L’opener Il cercatore ne è un chiaro esempio appena la chitarra di Elio Cassarà e l’Hammond di Ernesto Vitolo si lanciano in un paio di momenti solistici sorretti da una ritmica quasi heavy, mentre Jenny vocalizza senza sosta.
E la marca “progressive” sta proprio lì, in quell’autenticità volta ad alternare attacchi hard a sezioni più evocative e rilassanti, come nelle articolazioni complesse di Depressione cosciente, dove la vis improvvisativa della band (eccola, sì, again) conduce il comparto virtuoso (Vitolo al synth e Cassarà alla sei corde) in inaspettati territori fusion, per chiudere con un accordo pieno, ma su un’altra tonalità. Idem si potrebbe asserire per l’incipit infiammante di Ai bordi: l’Hammond di Vitolo dà un “la” alla Deep Purple da cui si dipanano stati d’animo musicali dalle imprevedibili evoluzioni tra scale orientali e schegge di pianismo jazz.
L’afflato etnico emerge ancora meglio tra le contaminazioni di Fuga da ogni gabbia e della title track (da qui messere si avverte il passaggio vocale di Francesco Di Giacomo): c’è un po’ il clima degli Area e degli Osanna di Palepoli ma con una strana iniezione di “heavy” mediterraneo che potrebbe trovare consensi entusiastici tra gli aficionado di Almamegretta e compagni.
Una vena più intima viene invece mantenuta dalle ballad Ad occhi aperti(dopo Morfeo) (ma quanto onirismo impressionistico c’è nelle note riverberate di un piano elettrico Fender Rhodes?) e Giganti (una Laurie Anderson a Mergellina sul sentiero di tastiere very minimal?).
Il recupero del progetto è convincente, proprio perché non guarda indietro o non cerca di rintracciare (solo) gli affittuari della “casa del lago”. È, prima di tutto, un tassello in più nella carriera artistica di Jenny Sorrenti in prospettiva di una chiave collettiva sempre più aperta, affinché le musiche si incontrino e si riproducano (anche geneticamente).

© Riccardo Storti (11 luglio 2011)

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LATTE MIELE, Passio Secundum Mattheum. The Complete Work - di Riccardo Storti

12 novembre 2014

In effetti, quando uscì, nel lontano 1972, mancava di qualcosa. Il tipico gap deficitario dell'opera prima. Sia bene inteso: la Passio Secundum Mattheum resta un classico del progressive italiano per originalità degli impasti stilistici, ricchezza del comparto vocale e tangibile abilità compositiva. Ve ne fossero esordi del genere (e nel genere, ancora oggi), però, non è l'apice della band ligure. Un punto di partenza che, solo oggi, a distanza di oltre 40 anni, diventa un felice e costruttivo ritorno, a completamento di intuizione che hanno richiesto adeguati tempi di sedimentazione, maturazione ed esperienza.
Questo il motivo prioritario, posto alla base del recente Passio Secundum Mattheum. The Complete Work, pubblicato dalla Black Widow Records. No, nessuna operazione nostalgia, perché il gruppo ha dovuto sudare per rifinire e integrare i vari innesti, di scrittura più o meno recente. Parafrasando il titolo, potremmo parlare di una passione per quanto dette lo starter alla loro carriera musicale. Formazione originale Dellacasa, Lacagnina e Vitanza, più Massimo Gori che, comunque, già nel '72, girava da quelle parti (mi risulta pure nei cori dell'originale, nonostante non fosse accreditato). Il contorno è monumentale. Il Coro Classe Mista di La Spezia e il prestigioso Gnu Quartet di Cabrera (violoncello), Izzo (violino), Rebaudengo (viola) e Rapetti (flauto). Gli “evangelisti” narratori, fedeli amici del giro prog quali Silvana Alliotta (Circus 2000), Sophya Baccini, Elisa Montaldo (Il Tempio delle Clessidre), Paolo Carelli (Pholas Dactylus), Giorgio D'Adamo (fondatore dei New Trolls), Alvaro Fella (Jumbo), Aldo De Scalzi e Paolo Griguolo (Picchio Dal Pozzo), Simonluca, Max Manfredi e Lino Vairetti (Osanna). Da non trascurare il fondamentale apporto al mixer del già citato Aldo de Scalzi, vero e proprio organizzatore di suoni, alla stregua di quinto membro nascosto dei Latte Miele.
Ebbi modo di tastare la resa del remake durante il live tenutosi al Teatro Verdi lo scorso aprile e le aspettative erano state rispettate in piena regola, ma la performance dal vivo, spesso, può distrarre l'attenzione verso altri particolari. Il disco, invece, non offre scusanti. Lì sei tu che scegli il momento che deve essere quello giusto.
Partiamo da quanto già era noto. Un po' come dopo un restauro, le vecchie tracce riemergono più brillanti, vivaci e ricche, pur nell'immutata sinopia pentagrammata. La voce solista di Massimo Gori, intervallata a quella di Alfio Vitanza, segna indelebilmente il marchio melodico dell'album, insieme alla riscrittura – più densa – delle parti collettive (I falsi testimoni). Naturalmente anche le sezioni strumentali risultano fedeli all'originale, comprese alcune timbriche tastieristiche come quelle del mellotron (il registro delle trombe alla fine di Giuda) e del moog, oltre all'immancabile organo Hammond. Ne guadagnano in corposità sia il basso di Gori, sia la chitarra di Dellacasa, mentre il drumming di Vitanza è un vero esempio di sciolta agilità tra dosati fill e controllo dinamico (Giuda). 
Negli innesti, il pregio maggiore dello sforzo. I Latte Miele sono riusciti a fare attecchire sul solido corpo originario una materia apparentemente esterna, ma che, grazie ad una delicata operazione di simbiosi creativa, mostra un'indubbia continuità con la visione poietica (e anche poetica) dell'archetipo discografico. Insomma, non si avvertono stacchi, forzature, riempitivi e incollature, ma autentica sintesi.
L'Introduzione conferma quell'aura World Music (riferibile un po' ad un'altra Passione, quella di Peter Gabriel) che già ascoltammo nel Live Tasting ma, per il resto, quella dei Latte Miele è una scrittura sovrapponibile al progressive sinfonico. Il pane e il sangue dell'alleanza rivela ariose aperture alla Genesis con soli di chitarra e di moog e ampie rullate di batteria; in Il rinnegamento di Pietro avviene che una canzone d'ampio respiro melodico finisca per trasformarsi in una grottesca marcia inquietante.
È proprio in questo frangente che la linea del disco devia verso le atmosfera dell'opera rock. Siamo al vertice ovvero Il prezzo del sangue: modulazioni, cambi di tempo, metamorfosi coloristiche dall'orchestra rock al coro, complesse partiture quasi da colonna sonora. In una sola stazione, sembra siano stati convocati a raccolta Prokof'ev, i Procol Harum, il Banco, Orff e Bacalov. 
Con Aria della Croce. Tra i soldati e la polvere si ritorna allo stesso clima sinfoprog de Il pane e il sangue dell'alleanza, arricchito dalla chitarra classica di Dellacasa e da un testo particolarmente toccante per un ritratto di Cristo, che va ben oltre l'aspetto confessionale. È umano, troppo umano (“lo spettacolo finisce qui/ quello che resta/ su quella croce/ è già storia di ieri”). Il velo del tempio, invece, si regge su un portato pulsante alla Yes, pur nell'ideale incontro corale tra due “classici” della musica liturgica: il Dies Irae e lo Stabat Mater.

In questa Passio aleggia anche lo spirito sincero di Don Gallo, a cui è dedicato il lavoro e a favore del quale avrebbe prestato la propria voce come evangelista, se non fosse stato convocato per una session ben più importante... :-( Da lassù, comunque, avrà gradito.

© Riccardo Storti

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LUIGI MILANESE Equinox - di Riccardo Storti

1 ottobre 2014


Può un disco essere il più autentico e fedele curriculum vitae per un musicista? Questo è l'interrogativo che mi è sorto  appena ho dedicato il mio tempo all'ascolto di Equinox, CD del chitarrista acustico genovese Luigi Milanese. E la risposta è stata subito affermativa, già dopo avere dato un occhio alla tracklist. Si spazia, non perché Milanese abbia voluto mostrare sfoggio di conoscenze musicali a 360°, bensì perché Equinox racconta una vita musicale, che ha attraversato e sta attraversando lidi e latitudini sonore diverse tra loro. Interpretazioni che toccano il bardo celtico O'Carolan, J.S. Bach (la Sarabanda dalla Partita per liuto BWV 997), Villa Lobos (l'emozionante Preludio n. 4 in mi minore) e i Led Zeppelin, nonché pagine personali di indubbio interesse.
La chitarra – sotto le sue dita - si fa quasi orchestra nelle mirabolanti ascese fingerpicking di Flower of Lust (qui mi ha ricordato Riccardo Zappa) e negli arpeggi rarefatti ed essenziali di Cosmic Revolution.
Lui e la sua chitarra, un binomio felicemente scindibile, quando arrivano a dare una mano amici suonatori di archi, fiati, percussioni e pianoforti. Meritano una citazione lo Gnu Quartet, Marco Fadda e Fabio Vernizzi, musicisti ben noti non solo nella cerchia genovese. Il proposito cameristico brilla e valorizza ulteriormente l'imprinting chitarristico dei brani.
Alcune composizioni assumono colori brillanti grazie agli interventi di timbriche delicate quali l'oboe (Alice Fabbri), il sax soprano (Paolo Firpo) e il violoncello (Marila Zingarelli). In Little Modal Dance si evocano tessiture acustiche memori degli album anni Ottanta della Windham Hill;  La mia stella si apre con un'allusione ad Horizon di Hackett, ma lo sviluppo – puntellato dal canto del violoncello – potrebbe essere benissimo una base sonora per il primo Nick Drake; l'anima folk blues di un classico dei Led Zeppelin (Tangerine) assume inflessioni quasi da pop unplugged grazie alle sottolineature dello Gnu Quartet e alle percussioni di Marco Fadda; in Africa la chitarra si presenta inizialmente defilata, quasi affidando agli altri strumenti la scatola di montaggio melodico-armonica in un moto dinamico dalle intenzioni cangianti.
Che curriculum in pentagramma...

© Riccardo Storti

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EMPIRICAL TIME Songs Poems Lady - di Riccardo Storti

4 settembre 2014


Gli Empical Time sono una band emergente veneta che dichiara apertamente ed esplicitamente di rifarsi al progressive rock degli anni Settanta. Per questo motivo, si è affidata allo ProsdocimiRecording Studio attraverso la produzione di Mike 3rd e tramite la supervisione al mixer di Chris Murphy (uno che se ne intende, visto che dalla sua console ha curato lavori dei King Crimson, Tony Levin, Steve Morse, Terry Bozzio, etc.).
Ovvio che questo loro SongsPoems Lady (Ma.Ra.Cash, 2013) sia un esordio ben confezionato, frutto di amore ed entusiasmo per il genere e figlio di un ensemble formato da ragazzi preparati sotto quasi tutti i punti di vista e di ascolto. Gli appassionati delle sonorità vintage finiranno per innamorarsi perché gli Empirical Time ci sanno fare.
Detto ciò, però, rischio di ripetermi se sottolineo ulteriormente che si tratta di un ennesimo prodotto onestissimo e rispettabilissimo (ci mancherebbe) ma che è fermo al passato e non aggiunge molto ad una scena già troppo inflazionata?
Brani rifiniti, legati ad una nobile storia ma talvolta zeppi di schemi stilistici a tratti ripetitivi, sia nell'ordito melodico-armonico, sia nella riproposizione di topoi alquanto prevedibili. Attenzione. Ciò non è né un pregio, né un difetto: è un'opzione espressiva a cui siamo piuttosto abituati e che, comunque, è gradita dalla nicchia del pubblico prog. Teniamo anche conto del fatto che si tratta di un'opera prima e, come per tutte le opere prime, ci si gioca un po' tutto perché ci si affaccia e non è nemmeno facile per chi compone tarare le adeguate mosse comunicative. Qui ci si rivolge ad un'utenza che, alla fine, cerca quanto proposto ma il prog di oggi non va in quella direzione. Essere epigonici è, ad ogni modo, un sistema per rendere più calligrafica la stesura del proprio biglietto da visita, ma poi si può evolvere.
I brani sono quasi tutti pervasi da una generale atmosfera floydiana, soprattutto nelle parti più lente (agogicamente parlando, dall'Andante al Largo), con spezzature dai richiami quasi tattili ad altre realtà. Gli esempi, che si possono citare, sono molteplici: Three Years She Crew in Sun and Shower, si muove da poliritmie alla Yes a momenti individuali di moog alla Alphataurus; in I Travelled Among Unknown Men non manca nemmeno un episodio di solipsismo chitarristico frippiano; Diamond Lady Pt. 1 mostra un cuore parente degli Osanna di Milano Calibro 9, mentre gli stacchetti jazz rock di Untamed rimandano ai Colosseum II; il gusto per le scale orientaleggianti di Whispers From the Past e di Dancing On Saturn avvicinano la band al Volo di Medio Oriente 249.000 tutto compreso (pollice verso per il sequencer impazzito nella danza saturnina... sa un po' di espediente gratuito).
Pur aderente ad un solido impianto derivativo, Strange Fits of Passion è il brano che meglio mette in luce le pregevoli qualità interpretative e compositive degli Empirical Time: preludio pianistico di grana impressionistica, passo di ballad memore di Us and Them con uno spiazzante interludio dissonante e rumoristico corredato da un efficace canto hammilliano.
Per l'attitudine verso la pulizia metrica, si ascolti anche l'essenzialità lineare di She Dweit Among the Untolden Ways (in evidenza il basso melodico di Andrea Baggio, componente quasi silenzioso – rispetto ai ruoli delle tastiere di Riccardo Scarparo e delle chitarre di Giovanni Croatto e di Federico Galleani – eppure, qua e là, determinante, anche in combutta con il batterista Robert Anthony Jameson).
Certo, c'è molto di buono: l'impianto è solido, la cultura musicale è notevole e poggiata su spalle larghe, ora si tratta di capire se questa devozione al prog è solo un abile e agile starter per crescere o un cordone ombelicale impossibile da recidere. 
 

© Riccardo Storti

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OUTOPSYA Fake di Riccardo Storti

27 settembre 2013

Manca indubbiamente qualcosa e, nonostante l'esplicito ricorso alla numerologia, i conti non tornano. E ringrazio di cuore gli Outopsya per avermi fornito un presskit stampato piuttosto esaustivo, soprattutto illuminato dalle illuminanti interviste di Athos Enrile e Donato Zoppo. Per il resto, sfido chiunque a capirci qualcosa, partendo dalle poche note di copertina. L'ammirevole Lizard – come sempre – si distingue per coraggio visto che Fake è un doppio CD di “musica disturbante, ossessiva, impervia” (cito dal loro comunicato stampa). E va bene. Non dico la provocazione, ma l'idea di affidarsi a quanto fa più noise, industrial, postrock, musica colta, elettronica da ambiente è comunque valida. Esiste ormai una tradizione assodata. 22 brani per 90 minuti non sono uno scherzo. Due i composer-esecutori: il poliedrico Luca Vianini (chitarra, tastiere, batteria e voce) e Evan Mazzucchi (basso e violoncello). Ad un primo ascolto, sembra un'unica lunga improvvisazione con forti espansioni atmosferiche in cui non accade nulla sull'orizzonte melodico e armonico (mentre le pulsazioni rasentano la piattezza dei battiti). Leggo meglio e apprendo che Fake è stato “concepito proprio come unica traccia” che “un po' per comodità e un po' per caso, abbiamo diviso in 22 brani”. 11 + 11! E così il disco esce l'11-11-11. Il giochino ha pure un lato divertente: il ricorso ad una numerologia inconscia fa molto “out” (opsya...). Però continua a sfuggirmi molto, mentre tento di mantenere una certa stabilità d'ascolto tra attacchi alla Mr. Bungle, chitarre crimsoniane, dissonanze detonate a Darmstadt 60 anni fa e liquidità di calcolate improvvisazioni. Leggo meglio e scopro l'equivoco di fondo: emerge che Fake è nato “come colonna sonora del film muto di Rupert Julian Il fantasma dell'opera (1925)”. Caspita, un classico del cinema. Ciò significa che, per quanto questo lavoro voglia essere free e visionario, deve avere attinenza con le immagini in movimento proiettate sullo schermo. Un commento musicale che racconta e supplisce alla parola: allora, sì, che sento gli Outopsya come abili facitori di soundtrack. Però, attenzione, al di fuori del contesto, Fake suona come un lavoro assai dispersivo, a tratti addirittura noioso e pretenzioso, non tanto di difficile accettazione, ma nato da un errore comunicativo. I punti “luce” sono proprio pochi (qualche guizzo melodico in Lilies e la vivacità armonica e ritmica (7/8) di Enter the brain), il resto rischia di perdersi in un percorso oscuro, incerto (per l'ascoltatore) e troppo votato ad una casualità di comodo.
Altro discorso critico, se si potesse visionare il film con Fake in sottofondo. L'impressione è che l'album dipenda troppo dal film e, per tale motivo, manchino adeguati sostegni di apprezzamento.   
© Riccardo Storti

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TROMAPROJECT Tromasoda - di Riccardo Storti

22 settembre 2012

Prendere alcuni standard jazz e centrifugarli per bene attraverso le lame affilate di un power trio. È quanto hanno combinato i Tromaproject di Renzo Luise (chitarra, già Jus Primae Noctis e non solo), Dino Cerruti (basso) e Rudy Cervetto (batteria): centrale la funzione solista della versatile sei corde di Luise che mischia con disinvoltura disparate cifre stilistiche (dal crossover al blues, dal rock'n roll alla fusion); sotto una sezione ritmica mai doma nel pompare adrenalina.
Il risultato è un breve CD (autoprodotto) di 5 brani riveduti e scorretti con graffiante grazia. Blue Trane di Coltrane sfrutta il primordiale giro con iniezioni wah-wah hendrixiane e dissonanze frippiane; Birk's Works di Gillespie lascia scorie filtrate da un setaccio un po' grunge e un po' Led Zeppelin; Impression di Coltrane miscela sentori da colonna sonora spy movie con cesure rumoristiche alla Naked City; una pericolosa natura punk metal s'impossessa di Road Song (Wes Montgomery). Non poteva esserci conclusione più iconoclasta di una “cubista” A Night in Tunisia (altro classico di Gillespie) dal profilo hard core ingentilito da un interludio basso-batteria piuttosto latineggiante. Che la segnalazione sia una preziosa occasione per discografici curiosi... signori, ne vale la pena.
© Riccardo Storti

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STORIE DI ROCK Innocenzo Alfano - di Riccardo Storti

19 settembre 2012

Innocenzo Alfano continua ad offrire importanti contributi musicologici all'analisi della popular music, pertanto anche del progressive; ed il suo ultimo Storie di rock testimonia ulteriormente questo sforzo impegnativo biunivoco. Sì, biunivoco perché Alfano è uno che non si risparmia di fronte a qualsiasi atto di vivisezione della partitura ma, al contempo, i suoi lavori richiedono pari attenzione da parte di chi legge. Da quando ha esordito nel 2004 con Fra tradizione colta e popular music: il caso del rock progressivo, Alfano ci ha abituato al gusto dell'approfondimento sul dato musicale, senza tanti fronzoli e senza troppe invasioni sociologiche e letterarie. E questo è sicuramente il maggior pregio del suo approccio. Così è stato anche per gli altri volumi (Verso un'altra realtà ed Effetto Pop) che – è doveroso sottolinearlo – si presentano come raccolte di saggi monografici (o inediti o riveduti e corretti, dopo essere stati pubblicati in spazi pubblicistici dedicati, tra cui il nostro “contrAPPUNTI”). Idem dicasi per il recente Storie di rock. Per entrare meglio nello specifico del libro, vale la pena citare il capitale sottotitolo: “Gli Anni Sessanta e Settanta attraverso dischi, festival, libri, luoghi, suoni e molte curiosità”. Dando una scorsa all'indice, c'è da perdersi: Allman Brothers, Hendrix, Colosseum, Family, Dylan, Genesis, Bakerloo, John Cipollina, Tempest, PFM, Le Orme, Acqua Fragile, Bombay Calling, Jimmy Page, Beatles, The Who, Bonzo Dog/Dah Band e potremmo continuare. Lo zibaldone si fa più unitario e saggistico con un capitolo autonomo sulla scena californiana (San Francisco Sound: i suoni di una città), praticamente un importante unicum in Italia. Beh, poi Alfano lo conosciamo: non ha peli sulla lingua, il suo taglio non dà adito ad equivoci e non lascia dubbi, ma – con buona e precisa volontà dell'autore – vuole essere “discutibile”, talvolta in maniera anche provocatoria e senza troppe mediazioni. Muovere le acque al di là di luoghi comuni e ipse dixit. Ci sta. Significa “fare critica”. Libro prezioso. Due punti, però, possono destare qaulche perplessità. Uno: il saggio Fabrizio De André in concerto con arrangiamenti (contraffatti) della PFM, già pubblicato sul blog di Athos Enrile e che innescò a suo tempo una replica precisa di Lucio Fabbri
(che, ahinoi, non è stata invece inserita da Alfano nel libro... peccato!). E sia: ci sarà consonanza tra Zirichiltaggia e Spirit dei Dobbie Brothers e tra Volta la carta e Paddy's Jig degli Steeleye Span, ma che c'entra la PFM? La Premiata nel live con De André, mantenne quegli arrangiamenti dall'album Rimini così come erano stati elaborati dalla triade Mims – Bubola – Reverberi. Poi l'idea di Alfano di denominare l'album con la dicitura “arrangiamenti PFM” preferendo un “accompagnamento PFM” è proprio fuori luogo e per nulla condivisibile. Musicalmente, in origine, cosa erano La guerra di Piero, La canzone di Marinella, Il giudice, Amico fragile, Bocca di Rosa, Il pescatore, Maria nella bottega del falegname, Il testamento di Tito, Verranno a chiederti del nostro amore, Giugno '73? E cosa sono diventate dopo quel tour, grazie agli arrangiamenti della PFM? La risposta sta nella carriera di De André che, anche in seguito, nei suoi live successivi, volle che quegli arrangiamenti di Mussida, Premoli, Djivas, Di Cioccio, Fabbri e Colombo rimanessero inalterati. Altro che accompagnamento...
Due: l'appunto Paul McCartney è morto, ma nessuno lo sa, riflessione sul divertente ed acuto lavoro ricostruttivo del famoso mito a cura di Glauco Cartocci (Il caso del doppio Beatle). Alfano ne distrugge le fondamenta senza, però, nemmeno entrare dalla porta e dare un'occhiata a chi c'è nell'appartamento... Alfano fiuta (e presume) che il lavoro di Cartocci possa parlare poco di musica e riduce il tutto ad una questione di gossip. E Alfano ammette, sì, di essere andato in libreria, ma “mi è bastato sfogliare l'introduzione del volume, più alcune decine di pagine dei vari capitoli/paragrafi di cui è composto il libro – le più significative, se così si può dire sperando di non abusare del termine -, perché mi passasse la voglia di leggerlo integralmente e soprattutto di spendere i soldi per l'acquisto”. Non è corretto, se non altro per una forma di rispetto nei confronti di chi quel libro lo ha scritto. Un brutto autogol.
Si può polemizzare con Alfano e mi è capitato di farlo più volte in forma privata. Io credo che le divergenze aiutino comunque a crescere e a fare crescere il nostro piccolo mondo critico. Gli input di Alfano – comunque la si pensi – offrono sempre una possibilità di replica, appunto, costruttiva. Cosa mi auspico dal nostro amico calabrese, pisano d'adozione? Beh, l'ho pregato più volte... ed ora passo dal privato al pubblico. Un saggio organico su un argomento specifico. Ben vengano le monografie, ma perché non pensare ad un equivalente italiano della pietra miliare Rocking the Classic di Edward Macan? Di sicuro, Alfano ha tutte le carte in regola per affrontare simile sfida e con risultati a lunga gittata. © Riccardo Storti 

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