NIK COMOGLIO Acqueforti - di Mattia Scarsi

3 ottobre 2010

Quando il coordinatore del CSPI mi ha chiesto di recensire questo lavoro, mi ha anticipato che a suo parere, l’avrei trovato molto vicino alle mie “corde”. Ebbene, devo appurare che tutti quei discorsi relativi alle odierne difficoltà di comunicazione e di comprensione fra gli individui, trovano in noi una evidente eccezione. Poter posare la mia penna su di un lavoro di tale sublime bellezza non solo mi ha onorato ma in poco meno di un’ora (la durata del cd), mi ha confermato che la scrittura, seppur indirizzata a terzi, spoglia l’animo delle persone e ne lascia intuire i gusti e la sensibilità.

Reso omaggio con grato stupore, a colui che alimenta il mio “sguardo ascoltatore”, passiamo a fare il nostro piacevole dovere.
Nel nuovo lavoro del torinese Nick Comoglio, la soavità della musica classica, le tentazioni progressive e il pathos dell’opera, camminano per mano, lungo una navata bagnata di luce per raggiungere con armonica ispirazione, l’altare della bellezza a cui consacrarsi.
Lo scrigno si schiude con Cedrus Libani, un andante morbido che si piega su continue modulazioni. Musica da camera alata nei cui cinque movimenti ora si disegnano arabeschi pazienti su temi mediterranei, ora si punta con impeto d’estuario, grazie all’ incalzante violoncello di Clerici, alla foce espressiva.
Personalmente ho sognato (con metamorfosi ovidiana) d’ abitare in un nido di colibrì e di ascoltare timoroso i giochi del vento, spettinare le fronde che imprigionano le silenti ricchezze dell’albero mediorientale: una partitura aerea, piumata, lievissima. Davvero pregevole.
Non che Primavera dei Tirreni e Canto della Natura siano inferiori ma forse la soffice originalità del Trio d’apertura qui viene un po’ meno, lasciando spazio comunque ad arie di assoluta cantabilità e a citazioni di grandi compositori di colonne sonore, fra cui spiccano i colori di Nino Rota e John Barry. Da segnalare il bellissimo Andante da Camera, il cui ascolto guidato da suggestioni olfattive, ci porta fra i variopinti muri del D’Orsay, sulle tracce dei grandi impressionisti.
E’ con la Roue de Fortune, seconda pietanza del trittico per violoncello e orchestra, che torna la meraviglia creatrice, capace di intersecare identità e percorsi non proprio adiacenti come la musica jazz e il rock e in grado di regalare all’ascoltatore momenti tanto curiosi quanto godibili.
L’apoteosi della sperimentazione è lasciata in fondo a questo forziere sonoro. Si tratta dello Stabat Mater in forma di oratorio che Comoglio incide sul testo tratto dal Mistero Buffo di Dario Fo per voce lirica, recitato ed orchestra. Ebbene, chiunque può capire che con così tanti ingredienti, le insidie erano almeno altrettante. Ne esce invece una suite dirompente e strabiliante per potenza espressiva, coagulata intorno alla performance magistrale, per nitidezza e sentimento, del soprano Chiara Taigi. Una Maria dalla voce angelica ma mai così umana e dolente nel rimembrar il triste fato che incombe sul suo “dolce e profumato giglio”.
Con il titolo Acqueforti, l’autore ha voluto richiamare il paziente lavorio artigianale del compositore e rimandare a quella tecnica calcografica, da lui amata, usata per incidere. Mi permetto d’aggiungere che proprio sopra la nostra corteccia, queste note vanno ad incidersi ma senza lavorio, senza quasi fatica. Come se, nonostante le distrazioni imposte, nonostante le “direzioni obbligatorie”, serbassero chiaramente la strada da percorrere. Come se in cuor nostro, non aspettassimo altro, da sempre. [M.S.]

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