MASSIMO COLOMBO Il gioco delle forme - di Riccardo Storti

29 dicembre 2010

A Massimo Colombo piace giocare. “Play”, direbbero gli anglosassoni; e capiremmo subito la polisemia del “gioco” inteso anche come atto di sedersi allo strumento (il pianoforte) e suonare. In questo gioco coinvolge le “forme” in complicità con il contrabbassista Yuri Golubev e il batterista Asaf Sirkis. Il trio come formazione ideale per un divertimento jazz ma non solo.

Colombo – non a caso – inaugura Il gioco delle forme (Splasc(H) Records – 2008) con una suite In breve, collezione di 9 miniature in cui l’osmosi stilistica di generi vive di un deciso approccio all’estemporaneità. Quando si dice improvvisazione; ma sarebbe troppo semplice e prevedibile. Ci mancano gli sguardi, gli ammiccamenti gestuali che sottendono al mood aleatorio di qualsiasi “istante” musicale (Schubert li chiamava “momenti”). E l’ecclettismo di Colombo esce nel modo più spontaneamente integrale: passi da sonata alla Alban Berg (In breve 1), tenui miroir impressionistici (In breve 2), mosse tra Erik Satie e Cole Porter (In breve 3), tracce di Brasile (In breve 4), una sarabande blues (In breve 5), sincopi be-bop (In breve 5), echi di un instabile “novecentismo” tonale corrotto dal jazz (In breve 6), staccati neoclassici dalle raffinate dissonanze (In breve 8) e fusioni di alto contrappuntismo swing (In breve 9).
Una volta usciti dalle naturali tensioni della suite, l’album non abbandona la primaria (e primordiale) attitudine all’interplay tra le parti: Amabile contesto suona come una song senza parole dalle innumerevoli varianti di dialogo tra protagonista (il pianoforte) e le altre “voci”. In Attira ira il sollazzo prosegue negli scatti be-bop all’interno di un flusso armonico di “vuoti” e “ripieni” con notevoli transiti individuali (il solista di Golubev). Pur di segno dinamicamente opposto, anche Frequenti lamenti mette in luce questo reciproco scambio di materiali tra pianoforte e contrabbasso.
Interferenze ritmiche latineggianti su un ossessiva linea dei bassi caratterizzano Reflection One, in cui il piano di Colombo – sul finale – riesce a liberare una suggestiva melodia. Riferimenti casuali ripercorre un viavai di flash espressivi riconducibili tanto al jazz classico quanto ad alcuni sentori “contemporanei” di frontiera. Chiude il CD Maelstrom Suite un omaggio a Lennie Tristano: per piano solo, in questa notevole composizione Colombo passa in rassegna le molteplici possibilità timbriche dello strumento attraverso un dettato armonico e ritmico vicino allo standard cool, ma con sensibili sforamenti in altre aree espressive.
Probabilmente questa è il vero valore aggiunto nella produzione di Colombo: musica “colta” e ragionata, che parte dal jazz ma che non si sa dove possa arrivare. [R.S.]

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Franco Leprino 1977-1987 - di Riccardo Storti

27 dicembre 2010

La Giallo Records ha pubblicato nel 2009 il CD Franco Leprino 1977-1987 contenente Integrati…disintegrati… (album del 1977) più una folta raccolta di inediti composti e registrati dal musicista milanese nell’arco di un decennio.

L’LP del 1977 è considerato dalla critica come uno dei tanti apripista di una via elettronica al progressive italiano, tanto da essere citato in svariati repertori nazionali e non. Vero, ma in parte, visto che Leprino, a differenza di alcuni contemporanei più attenti alle suggestioni dei corrieri tedeschi (citiamo Baffo Banfi e Automat), si serve anche di uno spettro elettroacustico in cui la chitarra classica sembra detenere la centralità armonica, pur fluttuando tra basi di synth e organi. Ovviamente si sente il peso della formazione classica di Leprino soprattutto nella scrittura di quelle parti che prevedono l’intervento di un pianoforte o di un flauto o di un oboe. Nell’insieme scaturisce anche una passione per le strutture “ripetitive” care a Terry Riley che, comunque, avvicinano questa opera prima di Leprino agli esperimenti più calcolati del Battiato di Clic e Sulle corde di Aries (non a caso siculo come il nostro).
Singolari ed eclettici i mondi sonori che si sprigionano dagli inediti, molti dei quali suonano come dichiarati omaggi a personalità artistiche del Novecento. A Stravinskij dedicata la cameristica Fiatazioni: il fagotto della Sacre continua a dimostrare una forza attrattiva timbrica per i giochi timbrici di flauto e oboe in una miniatura nipotina della versatilità dell’Histoire du soldat. La voce – invece – è al centro della epigrafe musicale a György Ligeti: due contralto e un basso dimenticati in qualche angolo di Lux Aeterna. John Zen è il trbuto al Cage del Bacchanale mentre una celesta generata da un sintetizzatore produce Esa, traccia interamente costruita su scale esatonali come Debussy comanda. Un raptus atonale e meccanico al disklavier irrompe nell’atto di riverenza a Nancarrow, così come un Giappone ipnotico esce fuori da Informale 2 per Hokusai.
Ma Leprino ama anche il cinema, così ci consegna i “ricordini” di un Buster Keaton atonale ed elettronico (Informale) e di un Stanley Kubrick seminato tra suoni MIDI (l’apocalittica A Sunny Day in coda al Dottor Stranamore).
Pur fuori dalle dediche, il resto tocca altri giganti del secolo scorso, criptati nelle strutture dei brani: lo Steve Reich maniaco dei metallofoni di ogni sorta potrebbe avere ispirato le leprinianne Parlottazioni; qualche lampo di notturno danubiano alla Bartók sfreccia sui 7/4 di luna; lo Stockhausen perso tra nastri e sonorità concrete fa capolino nelle Meditazioni. E Leprino trasforma lo studio in mestiere, servendosi al meglio degli strumenti strategici regalati dalla prassi di una musica (ormai? Ancora?) postmoderna.
E l’interrogativo sorge spontaneo: che ne è del musicista – oggi – nel 2010? [R.S.]

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Nuove idee (e non solo) tra storie e sogni (realizzati) - di Luigi Cattaneo

24 dicembre 2010

Serata evento nell’auditorium San Barnaba di Brescia che ha ospitato la presentazione di quello che potrebbe essere uno dei dischi progressive più significativi di questo 2010 ormai agli sgoccioli ossia Castles, wings, stories and dreams (Black Widow Records) a nome Paolo Siani & Friends feat. Nuova Idea.

Quella del 10 dicembre 2010 è stata una serata evento perché Siani, dopo aver militato come batterista negli anni ’70 in band come Equipe 84 e Opus Avantra, oltre che nella già citata Nuova Idea, aveva abbandonato certe sonorità per dedicarsi a tutt’altro e quindi ascoltarlo nuovamente insieme ai suoi vecchi compagni di avventura a distanza di 37 anni ha suscitato in me una certa curiosità. Interesse manifestato anche dalla notevole affluenza di pubblico, segno che il tempo non ha cancellato quanto di buono hanno fatto la Nuova Idea nella propria carriera. Dopo un breve ma interessante set ad opera dei Blues Assault l’emozione diventa palpabile nell’area. A spezzarla e a catapultarci dentro l’atmosfera del disco ci pensa dapprima Franco Ghigini, bravissimo nell’analizzare il momento storico in cui si sono formati i Nuova Idea e poi lo stesso Paolo Siani, accolto con un’ovazione da stadio! Il caloroso benvenuto del pubblico riscalda da subito la serata che entra nel vivo quando Siani decide di presentare live dapprima un brano del nuovo lavoro, Questa penombra è lenta, con alla voce un eccellente Ottavia Bruno già ascoltata con i Blues Assault e poi tuffarsi nel jazz con Gianni Alberti al sax assoluto protagonista con staordinari soli. Siani appare decisamente in forma e ci si domanda dove sia rimasto “nascosto” per tanti anni uno con il suo talento... A seguire Ghigini chiama sul palco per una breve intervista Ricky Belloni e Giorgio Usai (chitarrista e tastierista di Il Mito New Trolls), altri due fondamentali elementi della Nuova Idea oltre che protagonisti del disco da presentare e, successivamente, una delle migliori voci del panorama Metal contemporaneo, Roberto Tiranti, singer dei Labyrinth, che con la sua voce riesce a mettere i brividi proponendo la poderosa Cluster bombs che aspira ad essere uno dei momenti clou di tutta l’opera. Chiude l’evento This open show splendida ballata con tanto di violoncello, piano e flauto prima che le luci della sala si riaccendino per un meritato applauso da parte del pubblico davvero entusiasta di aver assistito ad un grande serata di musica e ricordi. Un’ ultima considerazione d’obbligo riguarda il ricavato delle vendite del disco che in parte andranno devolute all’Ospedale Pediatrico Giannina Gaslini di Genova, un motivo in più per acquistare subito Castles, wings, stories and dreams. [L.C.]

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SLIVOVITZ Hubris - di Riccardo Storti

21 dicembre 2010

Quando – un bel po' di tempo fa – mi capitò tra le mani il demo dei napoletani Slivovitz, già con il primo ascolto, fui sorpreso da una freschezza espressiva in grado di fare vivere sotto lo stesso tetto mood partenopei e balcanici. Era come sentire il sax di James Senese nella Kočani Orchestra. Poi li notò Leonardo Pavkovic della Moonjune e nel 2009 giunse alle stampe l’opera prima Hubris, titolo emblematico, nonché segnale di un’ulteriore metamorfosi. O normalizzazione.

L’ “ibridazione” è riuscita attraverso il filtro del jazz: in sostanza, passando in rassegna la tracklist, ci si accorge presto che l’originaria patina mediterranea ha subito una bella riverniciatura “fusion”. Ma non si rimane delusi. La slivovitz è stata messa ad invecchiare in una botte di whiskey. Insomma, meno Goran Bregovic e più Miles Davis.
Latitudini africane (Caldo bagno) si incrociano il Sudamerica di Pat Metheny (Errore di parallasse); ma il disco ha ulteriori padri putativi: il già citato Miles (quello degli anni Ottanta in Mangiare), i nostri Perigeo (la costruzione armonica e timbrica di Né carne), Naked City (Zorn a’ Surriento), Bill Frisell (Né pesce), Caetano Veloso (CO2) e Pino Daniele (S.T.R.E.S.S.). Rimembranze arabobalcaniche in Dammi un besho e nel ripescaggio rimasterizzato di alcuni brani del 2004 (Canguri in 5, Tilde e Sig. M rapito dal vento).
I ragazzi avranno anche perso la genuinità naïf di un tempo ma a favore, comunque, di un nitore qualitativo frutto delle intuizioni produttive dello staff di Moonjune e di un’inevitabile crescita professionale.Aggiungi immagine

© Riccardo Storti

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L'esordio del Tempio - di Lugi Cattaneo

18 dicembre 2010

Il 16 ottobre 2010 il Paprika Jazz Club di Dalmine (Bergamo) ha avuto il pregio di ospitare per ben 3 sabati di ottobre grandi serate di rock progressivo. Quel concerto è stato il secondo appuntamento per gli appassionati dopo lo show acustico dei Delirium e prima di quello degli Altare Thotemico.
La band che si è esibita sul piccolo palco del delizioso locale bergamasco è Il Tempio delle Clessidre, gruppo ligure emergente di cui fa parte il mai dimenticato vocalist del Museo Rosenbach, Stefano “Lupo” Galifi.

Si tratta della prima esibizione pubblica del quintetto formato da Elisa Montaldo (tastiere), Fabio Gremo (basso), Giulio Canepa (chitarra) e Paolo Tixi (batteria) oltre che dal già citato “Lupo” dopo la pubblicazione dell’omonimo primo disco. La band però almeno in apparenza non sembra per nulla emozionata o intimorita dall’evento e propone per intero ed in maniera assai convincente il debut album nel quale spiccano le rese live di brani come Le due metà della notte, La stanza nascosta e Faldistorum oltre che svariate cover tra cui un esaltante riproposizione della prima parte di quel capolavoro che risponde al nome di Zarathustra… Colpiscono meno le altre cover proposte (tra cui Money dei Pink Floyd e Non chiudere a chiave le stelle della Locanda delle fate) ma questo appare più come un dettaglio e non inficia la buonissima prestazione di cui si sono resi tutti protagonisti.
Menzione particolare per Elisa Montaldo, abilissima a districarsi tra i suoni delle sue tastiere e anima della band e per Galifi, per il quale il tempo sembra essersi fermato! Ma un plauso personale lo voglio fare anche agli altri membri della band. Gremo risulta sempre preciso e incisivo, Canepa predilige la qualità alla quantità tramite i suoi soli mai invadenti e Tixi dimostra di essere un batterista potente e dall’ottima resa live.
L’augurio è che questa band (come tante altre a dire il vero) possa avere, ora che il disco è stato pubblicato dalla Black Widow, la possibilità di esprimersi con continuità soprattutto dal vivo… [L.C.]


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UN'ESTATE FA (parte 2) - Travolgenti Osanna: il prog che non invecchia - di Gianni Martin

2 novembre 2010

Domenica 1 agosto, la piazza Duomo di Spilimbergo, arriva la grande musica progressiva italiana partenopea . Il prog partenopeo è un animale senza respiro,

la Prog Family è Osanna, il vertice di quella musica assieme alla Pfm e gli Area, forse i più grandi perché maggiormente legati alla passione mediterranea. Così il concerto di domenica-evento fra gli eventi di questo bel festival – è stato un’ autentica esplosione di energia rock: grande musica e grandi canzoni sostenute da un ritmo vitale contagioso quanto ineludibile e inserite in uno show praticamente perfetto nelle sue due ore di parteno-vibrazioni. Le fondamenta degli Osanna, da quelli degli esordi con Elio D’Anna a quelli di oggi guidato da Lino Vairetti, erano e rimangono Palepoli, L’Uomo (capolavoro assoluto) e Landscape of life. Ad essi si aggiungono i pezzi del nuovo lavoro Prog Family, una famiglia allargata in cui trovano posto la leggenda del sax David Jackson(Van Der Graaf Generator) e- in alcune travolgenti canzoni- la tastiera dell’indimenticato Balletto di Bronzo, Gianni Leone. Napoli, si diceva. La Napoli del travisamento (facce dipinte e maschere hanno sempre accompagnato la band), la Napoli di Pulcinella rielaborata dal celebre Carosello di Ettore Giannini che apre lo spettacolo sullo schermo. Le splendide immagini legano tutto dall’inizio alla fine, qui passato e presente scorrono e si abbracciano con perfetti sincronismi, specialmente quando vedi- ascolti lo stesso brano cantato in bianco e nero dagli Osanna dei Settanta e poi sul palco dal gruppo del 2010. Emozioni forti! Una scelta chiara. Significa che la strada non è cambiata, nonostante gli anni del silenzio, nonostante i musicisti siano diversi: è rimasto come si diceva, solo Lino o’maestro (voce, chitarra e armonica), gli altri - tutti di eccellente livello- sono Gennaro Barba alla batteria, Fabrizio Fedele alla chitarra elettrica, Nello D’Anna al basso, Sasà Priore alle tastiere e Irvin Luca Vairetti alle tastiere e alla voce, con l’inglese-partenopeo David Jackson ai sax (spesso due contemporaneament) e al flauto. L’impatto sonoro è forte, pieno, rigoglioso, malato di rock, festoso nelle sue misurate improvvisazioni, forte di un’intesa perfetta e di una ritmica bombardante. Sfilano i classici di Palepoli (le iniziali Animale senza respiro e Oro caldo), i gioielli da L’uomo (il pezzo omonimo, Vado verso una meta, In un vecchio cieco, L’amore vincerà di nuovo, Non sei vissuto mai) e da Lanscape of life (Two boys, Il castello dell'Es, Fiume), arrivano Ce vulesse ce vulesse (da Suddance), My mind flies, la tribale Taka boom e le bellissime ed emblematiche Fuje’a chistu Paese (praticamente intro di Palepoli) e Solo uniti dei Città Frontale. Fino alla citazione dell’ Hendrix di Kiss the sky, all’omaggio, anche nei bis, di Theme One, corale epico dei giganti Van Der Graaf e alla struggente Canzona (There will be time), la nostra preferita.
La cosa soprprendente, dopo due ore di emozioni e di torrenziale e straordinaria performance strumentale, è che questa musica progressiva non è poi tanto prigioniera dei Settanta. Perché? Perché gli Osanna di oggi l’hanno vivificata, rivissuta e sono stati capaci di restituircela fresca, intatta, ancora in grado di dirci e darci qualcosa da tenere nel cuore. [G.M.]

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UN'ESTATE FA (parte 1) - Rocchi dipinge le profondità dell'uomo - di Gianni Martin

1 novembre 2010

Al 32° festival di Folkest di Spilimbergo (PN), il 31 luglio 2010, c’era anche Claudio Rocchi, in Piazza Garibaldi. Claudio con il suo lungo viaggio nella canzone d’autore italiana ha seguito altre rotte: alcune verso l’oriente e le sue fedi, altre verso la sperimentazione sonora, rotte defilate però importanti, seminali, sicuramente generose con chi ha seguito questo maestro di spiritualità in musica che non vuole insegnare, bensì testimoniare un piccolo percorso personale.

A Spilimbergo Claudio ha dimostrato di non essere prigioniero di un passato, di non essere un personaggio del passato, ma una mente libera dagli illusori vincoli del tempo, libero di comunicare sentimenti e pensieri, di raccontare La realtà non esiste. E’ capace di parlare in modo straordinariamente fresco e originale - oggi come ieri - di Gesù Cristo e dei miracoli necessari, di radici e semi. Una sublime amarezza ci accompagnava prima del concerto, perché temevamo che la gente non avrebbe capito, o non avrebbe capito più Claudio Rocchi. Invece, ci siamo sbagliati: la platea era formato da un pubblico attento (con tanto di Fan Club) e chi tornava dal paradiso blues di Eric Bibb (che suonava in un altro palco a 300 metri da lui) si è fermato ad ascoltare, rapito da questi frammenti di sereno paradiso interiore che le canzoni di Claudio sanno svelarci e donarci senza pretese didascaliche, senza strade etiche o politiche obbligate, ma soltanto con il desiderio - come abbiamo già detto - di vivere e testimoniare, un essere fra altri essere, fino alla compassione di fronte ai mali e ai malanni del mondo ai punti di domanda che popolano i nostri orizzonti di fragili creatori. Il Volo magico di una notte d’estate a Folkest è stato terapeutico - se non salvifico - per molti di noi: chi ha sempre amato Rocchi nella sua tenera e solare spiritualità e per chi lo ha ascoltato per la prima volta. Il Volo magico ha scacciato fantasmi e tolto ragnatele alla musica d’autore, illuminato dalle candele sul palco, dalla voce e della chitarra di Claudio Rocchi. E da un messaggio antico come le montagne: l’amore per l’uomo in tutte le sue fragili e meravigliose declinazioni. Ben tornato Claudio…. [G.M.]


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NIK COMOGLIO Acqueforti - di Mattia Scarsi

3 ottobre 2010

Quando il coordinatore del CSPI mi ha chiesto di recensire questo lavoro, mi ha anticipato che a suo parere, l’avrei trovato molto vicino alle mie “corde”. Ebbene, devo appurare che tutti quei discorsi relativi alle odierne difficoltà di comunicazione e di comprensione fra gli individui, trovano in noi una evidente eccezione. Poter posare la mia penna su di un lavoro di tale sublime bellezza non solo mi ha onorato ma in poco meno di un’ora (la durata del cd), mi ha confermato che la scrittura, seppur indirizzata a terzi, spoglia l’animo delle persone e ne lascia intuire i gusti e la sensibilità.

Reso omaggio con grato stupore, a colui che alimenta il mio “sguardo ascoltatore”, passiamo a fare il nostro piacevole dovere.
Nel nuovo lavoro del torinese Nick Comoglio, la soavità della musica classica, le tentazioni progressive e il pathos dell’opera, camminano per mano, lungo una navata bagnata di luce per raggiungere con armonica ispirazione, l’altare della bellezza a cui consacrarsi.
Lo scrigno si schiude con Cedrus Libani, un andante morbido che si piega su continue modulazioni. Musica da camera alata nei cui cinque movimenti ora si disegnano arabeschi pazienti su temi mediterranei, ora si punta con impeto d’estuario, grazie all’ incalzante violoncello di Clerici, alla foce espressiva.
Personalmente ho sognato (con metamorfosi ovidiana) d’ abitare in un nido di colibrì e di ascoltare timoroso i giochi del vento, spettinare le fronde che imprigionano le silenti ricchezze dell’albero mediorientale: una partitura aerea, piumata, lievissima. Davvero pregevole.
Non che Primavera dei Tirreni e Canto della Natura siano inferiori ma forse la soffice originalità del Trio d’apertura qui viene un po’ meno, lasciando spazio comunque ad arie di assoluta cantabilità e a citazioni di grandi compositori di colonne sonore, fra cui spiccano i colori di Nino Rota e John Barry. Da segnalare il bellissimo Andante da Camera, il cui ascolto guidato da suggestioni olfattive, ci porta fra i variopinti muri del D’Orsay, sulle tracce dei grandi impressionisti.
E’ con la Roue de Fortune, seconda pietanza del trittico per violoncello e orchestra, che torna la meraviglia creatrice, capace di intersecare identità e percorsi non proprio adiacenti come la musica jazz e il rock e in grado di regalare all’ascoltatore momenti tanto curiosi quanto godibili.
L’apoteosi della sperimentazione è lasciata in fondo a questo forziere sonoro. Si tratta dello Stabat Mater in forma di oratorio che Comoglio incide sul testo tratto dal Mistero Buffo di Dario Fo per voce lirica, recitato ed orchestra. Ebbene, chiunque può capire che con così tanti ingredienti, le insidie erano almeno altrettante. Ne esce invece una suite dirompente e strabiliante per potenza espressiva, coagulata intorno alla performance magistrale, per nitidezza e sentimento, del soprano Chiara Taigi. Una Maria dalla voce angelica ma mai così umana e dolente nel rimembrar il triste fato che incombe sul suo “dolce e profumato giglio”.
Con il titolo Acqueforti, l’autore ha voluto richiamare il paziente lavorio artigianale del compositore e rimandare a quella tecnica calcografica, da lui amata, usata per incidere. Mi permetto d’aggiungere che proprio sopra la nostra corteccia, queste note vanno ad incidersi ma senza lavorio, senza quasi fatica. Come se, nonostante le distrazioni imposte, nonostante le “direzioni obbligatorie”, serbassero chiaramente la strada da percorrere. Come se in cuor nostro, non aspettassimo altro, da sempre. [M.S.]

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Aspettando Dellacasa: sapori di Spagna - di Riccardo Storti

16 settembre 2010

In attesa che Giancarlo Dellacasa inauguri con il suo concerto la nostra prossima edizione di Impressioni di Settembre, un piccolo consiglio d’ascolto per chi riuscisse ancora a reperire un preziosissimo CD del 2002. Si intitola Spagna ed è stato edito da Progetto Musica. Il contenuto, un live di chitarra classica – tenutosi quell’anno presso la Cattedrale di Piacenza – da Dellacasa. Un’avvincente playlist di classici iberici dello strumento dal Rinascimento alla contemporaneità proposta con stile grazie al tocco raffinato del nostro. E non manca – se vogliamo – pure qualche addentellato progressive, visto che si può ascoltare la Sonata K 380 di Domenico Scarlatti (italiano, sì, ma madrileno di adozione) che molti di voi potranno rintracciare nella parte centrale di Collage delle Orme.

Si parte dalla corte di Carlo V con la Fantasia di Alonso Mudarra e si procede attraverso una “cover” mozartiana di Fernando Sor (la Variazioni op. 9 su un tema da Il flauto magico di Mozart), per entrare nel “grosso” dei maestri di quella scuola nazionale alimentata anche da compositori per chitarra quali Francisco Tarrega (non potevano mancare gli evergreen Capricho Arabe e Recuerdos de la Alhambra), il catalano Miguel Llobet, il papà di Aranjuez, ovvero Joaquin Rodrigo (qui presente con i Trez piezas españolas) e Vicente Asencio; chiudono due brani – alla De Falla – di Antonio Ruiz-Pipò (Canciòn y danza n. 1).

Se vi capita di trovarlo tra gli scaffali di qualche negozietto di dischi – più specializzato per la classica – non esitate: è un ottimo antipasto ma anche un valido CD antologico di “buona musica” (merito anche di un libretto espositivo curato dall’attento critico Sante Bandirali). [R.S.]

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BALLO DELLE CASTAGNE - di Mattia Scarsi

30 agosto 2010

Fin dal primo ascolto, fin dal mio primo “Ballo delle Castagne”, ho avvertito l’incombente (com)presenza del suono buio e disperato dei Pain of salvation smarrito talvolta in soluzioni più acquose, pendenti verso l’ indie o indie-pendenti.
Procedendo con la frequentazione di questo lavoro confermo i richiami ai tetri riti ed attriti di Gildenlow e soci, band maestra nello sviscerare la bellezza dell’inquietudine.
Francamente però devo ammettere che questo album non è riuscito a rapirmi, a depredarmi, a colonizzare la mia attenzione, insomma non mi ha convinto del tutto.

Vi ho trovato solo scampoli di incubi, brevi intermittenze di buio ed in qualche traccia buone dorsali ritmiche con pregevole lavoro chitarristico di Marco Garegnani. In questo senso vorrei citare Sole e acciaio, lacustre e cupa come un sonetto di Bei Dao, danza ipnotica su un sitar meticcio e sembra fiorire da labbra irrorate d’ assenzio: “Ribaltare il silenzio della morte con l’eloquenza dell’acciaio”, ecco lo spirito maudit su cui cola un testo dal sapore esiziale. Ecco quello che è o, a mio parere, avrebbe dovuto essere, la tana di questo album, che invece, ahimé, non trova altri momenti emergenti.
La libera rivisitazione di Omero con cui il disco si schiude, si apprezza per un testo dotato di artigli ma rimane sulla pelle come un inferno tiepido. Così come non convince Specchi e perline colorate, uno degli episodi di indie rock a cui si accennava prima, che ricorda le pagine meno abrasive dei Verdena. A ciò s’ aggiunga la performance del lead vocal Vinz che se declinata ad un’ interpretazione teatrale come ne Il Pianto di Cristo su Gerusalemme, può creare sinistre suggestioni ma che ha ancora molto da lavorare per aderire con più incisività e maggior policromia e per suonare meno stanca e stentorea nelle parti cantate. [M.S.]

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Gong ieri e oggi - di Diego Secondelli

25 agosto 2010

Mi sono avvicinato all'appuntamento con il concerto dei Gong ad Asti lo scorso 5 luglio con la testa piena di dubbi.Voglio troppo bene ai Gong degli anni d'oro e penso non riuscirei a sopportare una performance sotto tono, una delusione emotiva o tecnica. Ricordo ancora con dolore un viaggio di svariate centinaia di chilometri, oltretutto in epoche in cui non è che navigassi nell'oro, attratto dalla firma "gong"per trovarmi di fronte ad alcuni sconosciuti capitanati dal pur eccelso Pierre Moerlen, che nulla aveva a che fare con il maestro australiano.
Internet non esisteva, e nemmeno i telefonini, le riviste straniere non arrivavano in città e mi ero perso la notizia dello "split" degli originali: la delusione fu cocente.
Però, adesso, la presenza di Allen e Hillage prometteva ogni bene. E le promesse sono state abbondantemente mantenute: che concerto!

Formazione "quadrata" e schemi ben definiti: molto rigore da parte di tutti, con il Maestro (e relativa signora) unici autorizzati a gigioneggiare sul palco.
Sezione ritmica secca e precisa, con un bassista - Dave Sturt – metronomico e, sui brani nuovi, molto "funky" (se tale può essere definito uno che comunque suona nei Gong). Batterista - Chris Taylor - degno erede dei colleghi precedenti: un bel frullino che non ha paura dei tempi dispari e del levare cattivo.
Quartetto base "storico": Daevid Allen, Gillie Smyth, Steve Hillage e Miquette Giraudy. Complice la location (un antico cortile medioevale) e una bella quantità di fan che sapevano a memoria le canzoni, direi che si sono divertiti anche loro insieme al numeroso pubblico (piazza gremita). La Smyth ogni tanto si "distrae" ma è anche quella che catalizza maggiormente le simpatie e poi...senza space whispers che Gong sarebbero.
Una citazione a parte per l'erede di Bloomdido: Ian East, sinceramente mi mancava alla collezione della Gong Family, anche perchè giovanissimo, ma, signori miei, tanto di cappello. Va bene che le partiture di Didier Malherbe sembrano ordite appositamente perchè le suoni lui - o uno come lui - però c'è stato un momento (Oily Way) che sembrava esserci Bloomdido a soffiare sul palco, il pubblico ha prontamente percepito e molti applasi sono stati per lui.
Le canzoni: penso che, arrivati a quella bella età e a quella grande fama, dopo aver scritto centinaia di song, non abbia senso fare del revival ma neanche ne abbia proporre solo composizioni nuove per promuovere l'ultimo CD. Non sarebbe da Allen.
E infatti il Maestro si è costruito una sorta di "piece" teatrale - costumi compresi ... e che costumi: ripercorre la venuta di Zero sul pianeta terra, le sue disavventure e la sua morale. La prima entrata sul palco con il costume da Zero the Hero è stata un allegro shock e ha meritato cinque minuti di applausi.
Questo sconfinamento nel modo del visuale ha permesso ad Allen di costruire una colonna sonora, aiutata da un maxi schermo psichedelico alle spalle del gruppo, che alternava i capisaldi della trilogia famosissima (Flying Teapot, Angels Egg e You) a novità, specialmente da 2032 che si sono armoniosamente inseriti nel contesto.
Del resto è stato unanimemente dichiarato che questa formazione è quella che maggiormente si avvicina al primo spirito Gong, grazie anche al lavoro della coppia Hillage/ Giraudy e lo dimostrano anche le ultime opere su CD che riprendono il discorso da dove era stato lasciato parecchi anni fa.
Alla fine abbiamo contato due ore di concerto tiratissimo, elegante, con suoni raffinati e con le già citate divagazioni un po’ più ritmate che hanno fatto saltare in piedi il pubblico in svariati balli liberatori - per inciso: ballavano anche loro sul palco e vi giuro che era spettacolo nello spettacolo.
Bis - tutti in piedi - con Camambert Electrique e apoteosi finale.
Per adesso miglior concerto del 2010, parere personale ovviamente, ma sono proprio contento di averli visti così in forma. Tutto quello di bene che ancora gliene verrà è strameritato: lunga vita al folletto australiano e a tutti i suoi amici. [D.S.]




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Banco: fraterne battaglie di suoni - di Luigi Cattaneo

13 giugno 2010

Volpedo, graziosa cittadina in provincia di Alessandria, conosciuta per il famoso pittore Giuseppe Pellizza (autore del celebre dipinto Il Quarto Stato) ospita nella serata del 5 giugno 2010 il ritorno in pompa magna di una delle più importanti band del progressive italiano e forse mondiale, il Banco del Mutuo Soccorso. La serata è davvero suggestiva, sia per la cornice davvero incantevole di piazza del Municipio, sia per l’attesa di rivedere sul palco Calderoli e Gianni Nocenzi, oltre che per la presenza di Bernardo Lanzetti (ex Acqua Fragile e P.F.M.).

Ad aprire il concerto ci pensano i Beggar’s Farm, cover band ufficiale dei Jethro Tull che esegue un breve set di circa 20 minuti in maniera davvero sincera e appassionata mostrando classe e qualità. Ma la prima vera scossa si ha quando sale sul palco Lanzetti per eseguire alcuni brani della Premiata come La luna nuova e Dolcissima Maria che risultano stupefacenti per l’intensità della performance. Il momento di punta di tutta la serata arriva quando il bravo Franco Taulino voce e flautista dei Beggar’s Farm annuncia l’arrivo sul palco di Francesco Di Giacomo che insieme a Lanzetti duetta su Impressioni di Settembre in un momento in cui l’emozione ha la meglio su qualunque sensazione… L’attesa diventa palpabile e quando appaiono in scena Rodolfo Maltese (chitarra), Gianni e Vittorio Nocenzi (tastiere) Pierluigi Calderoli (batteria) in quella che è a tutti gli effetti una reunion del nucleo storico del Banco la piazza esplode in un caloroso applauso.
La band appare davvero in forma e sprigiona energia e maestria per tutta la durata del concerto, regalando al pubblico tutti i brani che hanno segnato un epoca musicale, da Rip (ancora in duetto con Lanzetti) a 750.000 anni fa…L’amore? passando per E mi viene da pensare e Il ragno. Calderoli appare ancora a suo agio nelle trame intricate dei romani, Gianni Nocenzi sembra non aver mai abbandonato il gruppo, lanciandosi anche in momenti solistici davvero interessanti oltre che in una “battaglia” a colpi di tastiere con il fratello Vittorio. Menzione particolare va fatta per Rodolfo Maltese, tornato dopo una lunga malattia, che ha saputo emozionare l’intera schiera di fan accorsa al concerto. Immancabile il finale con Non mi rompete, altro momento di grande emotività ed intensità.
Chiude la serata Hey Jude dei Beatles eseguita dal Banco insieme ai Beggar’s Farm con Di Giacomo, Lanzetti e Taulino abilissimi nell’intrecciare le loro voci e sostenuti dai musicisti delle due band che hanno dato vita ad una serata di musica davvero di grande livello e mi preme sottolinearlo di beneficenza, vista l’offerta libera per la raccolta fondi a favore di un associazione per le cure oncologiche dell’ospedale di Tortona. (L.C.)

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ARTICOLI ARRETRATI

2 giugno 2010

Cari amici, da oggi si ritorna alla piattaforma blog unificata sotto l'egida di Blogger, pertanto il "Note Sospeso" su Splinder non è più attivo. Ma per voi - che ci seguite attraverso i vari social network (Facebook) - non cambierà nulla. Sta a noi ripristinare ogni collegamento dal nostro sito ufficiale, etc.
Comunque nulla andrà perso. Vi elenchiamo le recensioni apparse sulla vecchia piattaforma:
- LUCIO LAZZARUOLO - Amelia and other favourites
- IL RUSCELLO - Paesaggio Solare (Estate '72)
- ALVITI & PAPOTTO - Le immagini della musica (2009)
- LUCIANO "VARNADI" CERIELLO: Radio Varnadi (Afre Music, 2008)
- MOGADOR
- INTERVISTA A ALEX CARPANI

Grazie per la lettura

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L’emozione della prima volta: il mio concerto dei Jethro Tull a Genova - di Cinzia Bruzzone

Mi ritrovo ancora a sorridere se penso a come tutto è cominciato: primo anno di università, una festa di compleanno, un regalo inatteso da un compagno di laboratorio. E’ Thick as a Brick, versione CD della celebre suite dei Jethro Tull, datata 1972. Mi chiedo ancora oggi come questa splendida musica abbia potuto rimanere così a lungo assente nella mia discoteca.

Il caso ha voluto che, quasi dieci anni più tardi, mi sia trovata a scrivere per la prima volta un articolo per ContrAPPUNTI, relativo al Lincoln Quartet, ottima cover band del gruppo inglese, meravigliandomi in primis per l’eccezionale bravura del fiatista Lelli. Ora, se mi aveste detto che, a trent’anni suonati, sarei stata testimone di un concerto dei veri Jethro Tull, e per di più a Genova, forse non vi avrei creduto!
A dispetto di chi contesta le odierne prestazioni vocali di Ian Anderson, posso ricordare con chiarezza l’emozione indicibile provata nel preciso momento in cui ho udito il suo canto… quella voce profonda, così chiara e distinta grazie all’acustica piuttosto buona, quel timbro così particolare, che mi ha riportato a velocità luce al primo ascolto di quel disco, tanti anni addietro! E la sorpresa è stata tale che sin da subito ho capito che non avrei potuto fare una cronaca oggettiva del concerto, troppo coinvolta per essere imparziale.
Nella mia forzata soggettività, ho colto due sole note negative. Insomma, un piccolo estratto della “mia” suite ho sperato non mancasse… Non ho molto apprezzato, poi, la pausa di venti minuti a metà concerto; sebbene sia dovuta probabilmente a una necessità di recupero vocale (il nostro buon Ian ha la bellezza di 62 anni!), ha l’effetto di raffreddare il pubblico, caldissimo sin dall’inizio (persino gli entusiasmi di alcune ragazze in delirio qualche fila dietro si sono un po’ spenti dopo l’interruzione). Ma a riaccendere gli animi ci ha comunque pensato Anderson, da istrionico narratore e musicista qual è, e le sue pose, sebbene difettino un po’ della grazia di un tempo, avvicinano e fanno sorridere chi lo ascolta dominare il flauto con uno stile che ha fatto la storia e avvince per le alternanze imprevedibili di suoni ruvidi e morbidi.
La musica scorre, fluisce via in un torrente di emozioni unico, sulle ali di una Bouree sublime e penetrante o di una Locomotive Breath che ipnotizza per l’intensità dell’esecuzione.
Alla fine, proprio sotto il palco, incontro Martin Grice dei Delirium, come me visibilmente impressionato, che mi dice: “Hai sentito che roba? Hai visto che entusiasmo? E la musica…”. Gli brillano gli occhi! E’ proprio vera l’affermazione del saggio Swami Kriyananda: “Non si può ascoltare musica con sensibilità senza divenire subito consapevoli che essa comunica più dei suoni, che è un veicolo per stati d'animo, per stati di coscienza. Il suono ha potere. E' vibrazione". [C.B.]

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