SLIVOVITZ Hubris - di Riccardo Storti
21 dicembre 2010
Quando – un bel po' di tempo fa – mi capitò tra le mani il demo dei napoletani Slivovitz, già con il primo ascolto, fui sorpreso da una freschezza espressiva in grado di fare vivere sotto lo stesso tetto mood partenopei e balcanici. Era come sentire il sax di James Senese nella Kočani Orchestra. Poi li notò Leonardo Pavkovic della Moonjune e nel 2009 giunse alle stampe l’opera prima Hubris, titolo emblematico, nonché segnale di un’ulteriore metamorfosi. O normalizzazione.
L’ “ibridazione” è riuscita attraverso il filtro del jazz: in sostanza, passando in rassegna la tracklist, ci si accorge presto che l’originaria patina mediterranea ha subito una bella riverniciatura “fusion”. Ma non si rimane delusi. La slivovitz è stata messa ad invecchiare in una botte di whiskey. Insomma, meno Goran Bregovic e più Miles Davis.
Latitudini africane (Caldo bagno) si incrociano il Sudamerica di Pat Metheny (Errore di parallasse); ma il disco ha ulteriori padri putativi: il già citato Miles (quello degli anni Ottanta in Mangiare), i nostri Perigeo (la costruzione armonica e timbrica di Né carne), Naked City (Zorn a’ Surriento), Bill Frisell (Né pesce), Caetano Veloso (CO2) e Pino Daniele (S.T.R.E.S.S.). Rimembranze arabobalcaniche in Dammi un besho e nel ripescaggio rimasterizzato di alcuni brani del 2004 (Canguri in 5, Tilde e Sig. M rapito dal vento).
I ragazzi avranno anche perso la genuinità naïf di un tempo ma a favore, comunque, di un nitore qualitativo frutto delle intuizioni produttive dello staff di Moonjune e di un’inevitabile crescita professionale.Aggiungi immagine
© Riccardo Storti
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