Fin dal primo ascolto, fin dal mio primo “Ballo delle Castagne”, ho avvertito l’incombente (com)presenza del suono buio e disperato dei Pain of salvation smarrito talvolta in soluzioni più acquose, pendenti verso l’ indie o indie-pendenti. Procedendo con la frequentazione di questo lavoro confermo i richiami ai tetri riti ed attriti di Gildenlow e soci, band maestra nello sviscerare la bellezza dell’inquietudine. Francamente però devo ammettere che questo album non è riuscito a rapirmi, a depredarmi, a colonizzare la mia attenzione, insomma non mi ha convinto del tutto. Vi ho trovato solo scampoli di incubi, brevi intermittenze di buio ed in qualche traccia buone dorsali ritmiche con pregevole lavoro chitarristico di Marco Garegnani. In questo senso vorrei citare Sole e acciaio, lacustre e cupa come un sonetto di Bei Dao, danza ipnotica su un sitar meticcio e sembra fiorire da labbra irrorate d’ assenzio: “Ribaltare il silenzio della morte con l’eloquenza dell’acciaio”, ecco lo spirito maudit su cui cola un testo dal sapore esiziale. Ecco quello che è o, a mio parere, avrebbe dovuto essere, la tana di questo album, che invece, ahimé, non trova altri momenti emergenti. La libera rivisitazione di Omero con cui il disco si schiude, si apprezza per un testo dotato di artigli ma rimane sulla pelle come un inferno tiepido. Così come non convince Specchi e perline colorate, uno degli episodi di indie rock a cui si accennava prima, che ricorda le pagine meno abrasive dei Verdena. A ciò s’ aggiunga la performance del lead vocal Vinz che se declinata ad un’ interpretazione teatrale come ne Il Pianto di Cristo su Gerusalemme, può creare sinistre suggestioni ma che ha ancora molto da lavorare per aderire con più incisività e maggior policromia e per suonare meno stanca e stentorea nelle parti cantate. [M.S.]
Mi sono avvicinato all'appuntamento con il concerto dei Gong ad Asti lo scorso 5 luglio con la testa piena di dubbi.Voglio troppo bene ai Gong degli anni d'oro e penso non riuscirei a sopportare una performance sotto tono, una delusione emotiva o tecnica. Ricordo ancora con dolore un viaggio di svariate centinaia di chilometri, oltretutto in epoche in cui non è che navigassi nell'oro, attratto dalla firma "gong"per trovarmi di fronte ad alcuni sconosciuti capitanati dal pur eccelso Pierre Moerlen, che nulla aveva a che fare con il maestro australiano.
Internet non esisteva, e nemmeno i telefonini, le riviste straniere non arrivavano in città e mi ero perso la notizia dello "split" degli originali: la delusione fu cocente.
Però, adesso, la presenza di Allen e Hillage prometteva ogni bene. E le promesse sono state abbondantemente mantenute: che concerto!
Formazione "quadrata" e schemi ben definiti: molto rigore da parte di tutti, con il Maestro (e relativa signora) unici autorizzati a gigioneggiare sul palco.
Sezione ritmica secca e precisa, con un bassista - Dave Sturt – metronomico e, sui brani nuovi, molto "funky" (se tale può essere definito uno che comunque suona nei Gong). Batterista - Chris Taylor - degno erede dei colleghi precedenti: un bel frullino che non ha paura dei tempi dispari e del levare cattivo.
Quartetto base "storico": Daevid Allen, Gillie Smyth, Steve Hillage e Miquette Giraudy. Complice la location (un antico cortile medioevale) e una bella quantità di fan che sapevano a memoria le canzoni, direi che si sono divertiti anche loro insieme al numeroso pubblico (piazza gremita). La Smyth ogni tanto si "distrae" ma è anche quella che catalizza maggiormente le simpatie e poi...senza space whispers che Gong sarebbero.
Una citazione a parte per l'erede di Bloomdido: Ian East, sinceramente mi mancava alla collezione della Gong Family, anche perchè giovanissimo, ma, signori miei, tanto di cappello. Va bene che le partiture di Didier Malherbe sembrano ordite appositamente perchè le suoni lui - o uno come lui - però c'è stato un momento (Oily Way) che sembrava esserci Bloomdido a soffiare sul palco, il pubblico ha prontamente percepito e molti applasi sono stati per lui.
Le canzoni: penso che, arrivati a quella bella età e a quella grande fama, dopo aver scritto centinaia di song, non abbia senso fare del revival ma neanche ne abbia proporre solo composizioni nuove per promuovere l'ultimo CD. Non sarebbe da Allen.
E infatti il Maestro si è costruito una sorta di "piece" teatrale - costumi compresi ... e che costumi: ripercorre la venuta di Zero sul pianeta terra, le sue disavventure e la sua morale. La prima entrata sul palco con il costume da Zero the Hero è stata un allegro shock e ha meritato cinque minuti di applausi.
Questo sconfinamento nel modo del visuale ha permesso ad Allen di costruire una colonna sonora, aiutata da un maxi schermo psichedelico alle spalle del gruppo, che alternava i capisaldi della trilogia famosissima (Flying Teapot, Angels Egg e You) a novità, specialmente da 2032 che si sono armoniosamente inseriti nel contesto.
Del resto è stato unanimemente dichiarato che questa formazione è quella che maggiormente si avvicina al primo spirito Gong, grazie anche al lavoro della coppia Hillage/ Giraudy e lo dimostrano anche le ultime opere su CD che riprendono il discorso da dove era stato lasciato parecchi anni fa.
Alla fine abbiamo contato due ore di concerto tiratissimo, elegante, con suoni raffinati e con le già citate divagazioni un po’ più ritmate che hanno fatto saltare in piedi il pubblico in svariati balli liberatori - per inciso: ballavano anche loro sul palco e vi giuro che era spettacolo nello spettacolo.
Bis - tutti in piedi - con Camambert Electrique e apoteosi finale.
Per adesso miglior concerto del 2010, parere personale ovviamente, ma sono proprio contento di averli visti così in forma. Tutto quello di bene che ancora gliene verrà è strameritato: lunga vita al folletto australiano e a tutti i suoi amici. [D.S.]
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può, pertanto, considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001. Le informazioni ed i testi inseriti sono forniti esclusivamente a titolo indicativo.