RED ONIONS Diario di un uomo qualunque - di Mattia Scarsi
21 giugno 2011
Attivi da più di sette anni, nei quali come tutti coloro che vogliono emergere, si sono fatti le ossa negli scantinati e sui palchi della micro-provincia, i perugini Red Onions presentano il loro primo lavoro in studio dal titolo Diario d’un uomo qualunque, un concept album che attraverso le 11 tappe musicali, riporta gli appunti e gli spunti raccolti durante il periglioso periplo dentro se stessi.
Il soffritto di base proposto dalle Cipolle Rosse è composto per lo più da un rock blues assai granitico che guarda con (giusta e condivisa) ammirazione a grandi gruppi del prog tricolore senza però mai abbracciare del tutto, il tessuto del nostro rock romantico. Non ci sono lunghe suites classicheggianti o segmenti jazzistici, ma piuttosto qualche minuto e rapido squarcio di fantasia che, nella loro musica, sembra fotografare un piccolo accenno di una futura metamorfosi. Per fare un paragone importante, e per dare qualche riferimento a chi fruisce della musica in maniera filologica, ascoltando il Diario, tornano in mente alcuni passaggi dei Jethro Tull, periodo 69/70 (Stand up – Benefit) dove, qua e là si poteva già intuire che di lì a poco, al folletto e ai suoi discepoli non sarebbero più bastati i margini canonici di tempo e spazio armonico. Questi spiragli dove affiorano elementi della nostra scuola cantautorale, schegge psichedeliche e atmosfere sulfuree, accrescono la piacevolezza e la curiosità nel continuare a sfogliare le segrete pagine del Diario. Pagine tra le quali fisso degli immaginari segnalibri sulla titletrack, su Epitaffio per la prima morte di un sogno con un ottimo intervento della chitarra elettrica e su Occhio del giorno dove invece troviamo una convincente chitarra acustica. Il rovescio della medaglia (non è un messaggio subliminale) è una qualità del cantato piuttosto carente e soprattutto, esclusi gli episodi sopracitati, la latitanza di melodie appena memorabili che, alla lunga, non fa che acuire la distanza fra il gruppo e l’ascoltatore, affaticato dalla mancanza di incanto. Chiudo con una nota riguardante il linguaggio. Ho ascoltato le parole investito dai flutti dell’album, le ho rilette sulla sponda cartacea e muta del silenzio. Quello fatto con i testi, è un lavoro che il sottoscritto non può che apprezzare: su chiunque intraprenda il sentiero della musica, soprattutto di un certo genere, incombe la benedetta maledizione della lingua italiana, calamita e calamità per chi si accinge a comporre nella lingua che fu del Manzoni. I Red Onions ne escono col merito di aver tentato nuove sfumature, iniettando tensione, fuggendo l’archetipico sciame di aggettivi senza attributi, inseminando le loro liriche di mistero, allusione e criptico criticismo. Questo è senz’altro un punto di forza da cui ripartire e crescere. [M.S.]