LATTE MIELE, Passio Secundum Mattheum. The Complete Work - di Riccardo Storti
12 novembre 2014
In effetti, quando uscì, nel
lontano 1972, mancava di qualcosa. Il tipico gap deficitario dell'opera prima.
Sia bene inteso: la Passio Secundum Mattheum resta un classico del
progressive italiano per originalità degli impasti stilistici, ricchezza del
comparto vocale e tangibile abilità compositiva. Ve ne fossero esordi del
genere (e nel genere, ancora oggi), però, non è l'apice della band ligure. Un
punto di partenza che, solo oggi, a distanza di oltre 40 anni, diventa un
felice e costruttivo ritorno, a completamento di intuizione che hanno richiesto
adeguati tempi di sedimentazione, maturazione ed esperienza.
Questo il motivo prioritario,
posto alla base del recente Passio Secundum Mattheum. The Complete Work,
pubblicato dalla Black Widow Records. No, nessuna operazione nostalgia, perché
il gruppo ha dovuto sudare per rifinire e integrare i vari innesti, di
scrittura più o meno recente. Parafrasando il titolo, potremmo parlare di una
passione per quanto dette lo starter alla loro carriera musicale. Formazione
originale Dellacasa, Lacagnina e Vitanza, più Massimo Gori che, comunque, già
nel '72, girava da quelle parti (mi risulta pure nei cori dell'originale,
nonostante non fosse accreditato). Il contorno è monumentale. Il Coro Classe
Mista di La Spezia e il prestigioso Gnu Quartet di Cabrera (violoncello), Izzo
(violino), Rebaudengo (viola) e Rapetti (flauto). Gli “evangelisti” narratori,
fedeli amici del giro prog quali Silvana Alliotta (Circus 2000), Sophya
Baccini, Elisa Montaldo (Il Tempio delle Clessidre), Paolo Carelli (Pholas
Dactylus), Giorgio D'Adamo (fondatore dei New Trolls), Alvaro Fella (Jumbo),
Aldo De Scalzi e Paolo Griguolo (Picchio Dal Pozzo), Simonluca, Max Manfredi e
Lino Vairetti (Osanna). Da non trascurare il fondamentale apporto al mixer del
già citato Aldo de Scalzi, vero e proprio organizzatore di suoni, alla stregua
di quinto membro nascosto dei Latte Miele.
Ebbi modo di tastare la resa del
remake durante il live tenutosi al Teatro Verdi lo scorso aprile e le
aspettative erano state rispettate in piena regola, ma la performance dal vivo,
spesso, può distrarre l'attenzione verso altri particolari. Il disco, invece,
non offre scusanti. Lì sei tu che scegli il momento che deve essere quello
giusto.
Partiamo da quanto già era noto.
Un po' come dopo un restauro, le vecchie tracce riemergono più brillanti,
vivaci e ricche, pur nell'immutata sinopia pentagrammata. La voce solista di
Massimo Gori, intervallata a quella di Alfio Vitanza, segna indelebilmente il
marchio melodico dell'album, insieme alla riscrittura – più densa – delle parti
collettive (I falsi testimoni). Naturalmente anche le sezioni
strumentali risultano fedeli all'originale, comprese alcune timbriche
tastieristiche come quelle del mellotron (il registro delle trombe alla fine di
Giuda) e del moog, oltre all'immancabile organo Hammond. Ne guadagnano
in corposità sia il basso di Gori, sia la chitarra di Dellacasa, mentre il
drumming di Vitanza è un vero esempio di sciolta agilità tra dosati fill e
controllo dinamico (Giuda).
Negli innesti, il pregio maggiore
dello sforzo. I Latte Miele sono riusciti a fare attecchire sul solido corpo
originario una materia apparentemente esterna, ma che, grazie ad una delicata
operazione di simbiosi creativa, mostra un'indubbia continuità con la visione
poietica (e anche poetica) dell'archetipo discografico. Insomma, non si
avvertono stacchi, forzature, riempitivi e incollature, ma autentica sintesi.
L'Introduzione conferma
quell'aura World Music (riferibile un po' ad un'altra Passione, quella di Peter
Gabriel) che già ascoltammo nel Live Tasting ma, per il resto, quella
dei Latte Miele è una scrittura sovrapponibile al progressive sinfonico. Il
pane e il sangue dell'alleanza rivela ariose aperture alla Genesis con soli
di chitarra e di moog e ampie rullate di batteria; in Il rinnegamento di
Pietro avviene che una canzone d'ampio respiro melodico finisca per
trasformarsi in una grottesca marcia inquietante.
È proprio in questo frangente che
la linea del disco devia verso le atmosfera dell'opera rock. Siamo al vertice
ovvero Il prezzo del sangue: modulazioni, cambi di tempo, metamorfosi
coloristiche dall'orchestra rock al coro, complesse partiture quasi da colonna
sonora. In una sola stazione, sembra siano stati convocati a raccolta
Prokof'ev, i Procol Harum, il Banco, Orff e Bacalov.
Con Aria della Croce. Tra i
soldati e la polvere si ritorna allo stesso clima sinfoprog de Il pane e
il sangue dell'alleanza, arricchito dalla chitarra classica di Dellacasa e
da un testo particolarmente toccante per un ritratto di Cristo, che va ben
oltre l'aspetto confessionale. È umano, troppo umano (“lo spettacolo finisce
qui/ quello che resta/ su quella croce/ è già storia di ieri”). Il velo del
tempio, invece, si regge su un portato pulsante alla Yes, pur nell'ideale
incontro corale tra due “classici” della musica liturgica: il Dies Irae
e lo Stabat Mater.
In questa Passio aleggia
anche lo spirito sincero di Don Gallo, a cui è dedicato il lavoro e a favore
del quale avrebbe prestato la propria voce come evangelista, se non fosse stato
convocato per una session ben più importante... :-( Da lassù, comunque, avrà
gradito.
© Riccardo Storti
Continua...