SAINT JUST AGAIN Prog Explosion - di Riccardo Storti
23 giugno 2018
[revisione di un articolo pubblicato l'11 luglio 2011]. Sarebbe un errore vedere, o meglio, ascoltare questa Prog Explosion (Raro!, 2011) come – semplicisticamente – il nuovo album di Jenny Sorrenti. Significherebbe, in sostanza, non avere capito la reprise di una sigla storica del progressive italiano, i Saint Just di cui Jenny ne incarna l’anima e l’animo. Indicativo quell’ “Again” posto a fianco del brand, quasi a comunicare un “dove eravamo rimasti”.
Va subito sottolineato che, comunque, esclusa Jenny, non è presente nel disco nessuno degli storici componenti dell’ensemble, ma l’operazione resta intrigante, seria, stimolante e per nulla nostalgica. La voce di Jenny è il tessuto connettivo di un plot ordito su 7 composizioni di un progressive rock maturo e attuale, figlio di esperienze pregresse, accresciuto dall’importante presente transgenerazionale di validissimi musicisti (su tutti il percubatterista Marcello Vento, ormai da decenni fiancheggiatore dei lavori della Sorrenti).
La compositrice celtico-napoletana segna uno stacco timbrico con le produzioni passate prediligendo una band elettrica, quindi un suono più poderoso, sostanzialmente rock. Non solo: tra mille atmosfere chiaroscurali, alcuni episodi vicini all’improvvisazione restituiscono all’ascoltatore quel clima unico e tipico del Napule Power. L’opener Il cercatore ne è un chiaro esempio appena la chitarra di Elio Cassarà e l’Hammond di Ernesto Vitolo si lanciano in un paio di momenti solistici sorretti da una ritmica quasi heavy, mentre Jenny vocalizza senza sosta.
E la marca “progressive” sta proprio lì, in quell’autenticità volta ad alternare attacchi hard a sezioni più evocative e rilassanti, come nelle articolazioni complesse di Depressione cosciente, dove la vis improvvisativa della band (eccola, sì, again) conduce il comparto virtuoso (Vitolo al synth e Cassarà alla sei corde) in inaspettati territori fusion, per chiudere con un accordo pieno, ma su un’altra tonalità. Idem si potrebbe asserire per l’incipit infiammante di Ai bordi: l’Hammond di Vitolo dà un “la” alla Deep Purple da cui si dipanano stati d’animo musicali dalle imprevedibili evoluzioni tra scale orientali e schegge di pianismo jazz.
L’afflato etnico emerge ancora meglio tra le contaminazioni di Fuga da ogni gabbia e della title track (da qui messere si avverte il passaggio vocale di Francesco Di Giacomo): c’è un po’ il clima degli Area e degli Osanna di Palepoli ma con una strana iniezione di “heavy” mediterraneo che potrebbe trovare consensi entusiastici tra gli aficionado di Almamegretta e compagni.
Una vena più intima viene invece mantenuta dalle ballad Ad occhi aperti(dopo Morfeo) (ma quanto onirismo impressionistico c’è nelle note riverberate di un piano elettrico Fender Rhodes?) e Giganti (una Laurie Anderson a Mergellina sul sentiero di tastiere very minimal?).
Il recupero del progetto è convincente, proprio perché non guarda indietro o non cerca di rintracciare (solo) gli affittuari della “casa del lago”. È, prima di tutto, un tassello in più nella carriera artistica di Jenny Sorrenti in prospettiva di una chiave collettiva sempre più aperta, affinché le musiche si incontrino e si riproducano (anche geneticamente).
© Riccardo Storti (11 luglio 2011)